Il mio galghetto
Il mio galghetto è l’unico che ho, per questo vi parlerò di lui, senza avere la pretesa di parlare anche degli altri. Non ho tanta esperienza in questo. E onestamente, abituato ai greyhound, ci ho messo del tempo per capirlo. Ho dovuto fare uno sforzo per entrare nel suo mondo.
Il mio galghetto spesso diventa piccolo piccolo, come se volesse scomparire e diventare invisibile, come se volesse occupare meno spazio possibile, come se volesse proteggersi dal mondo. Io so che questo ha tante spiegazioni, ma a me viene in mente la vita che tanti come lui vivono in Spagna: ammassati in buche e catapecchie, uno su l’altro, come sardine in una scatola. Quante volte il mio galghetto avrà dovuto farsi piccolo piccolo per sopravvivere? Chissà!
Il mio galghetto, quando siamo a cena, si siede e abbassa leggermente la testa e le spalle, con espressione di pietosa richiesta, sembra dire “sono buono e indifeso, mi dai da mangiare qualcosa dal tuo piatto, pieno di cose buone?”. Io lo so, non si deve dare niente dal tavolo. Ma quanto pane duro avrà mangiato il mio galghetto? E se domani non ci fosse più? Allora io cedo a questo nasone lungo che si protende con gli occhi di un bambino che implora.
Il mio galghetto a volte ne combina una ma quando lo guardo è lì, come se dicesse “io piccolo cane innocente”. Allora, come faccio ad arrabbiarmi con lui?
A volte è buffo, con le sue “facce” strane, con i suoi versi e i suoi rumori improbabili, da cui non ci si può difendere, e che cancellano i momenti no e riportano il sorriso.
Il mio galghetto è uno spirito un po’ libero, scruta sempre in giro come se fosse a caccia e sembra sempre pronto a partire per esplorare, per inseguire, per cercare. C’è qualcosa di misterioso in lui, qualcosa che sa di Africa e di atmosfere gitane. Ma io so che la Spagna gitana, con il suo flamenco e la sua immagine poetica, non ha avuto rispetto per il mio galgo e per i suoi fratelli. Che tristezza. Nessuna poesia nella vita dei galgo, nessuna musica se non quella di quell’orrenda usanza che si chiama “il pianista”.
Il mio galghetto spesso si strofina su di me, come se cercasse una carezza permanente, si abbandona su di me come se volesse diventare un tutt’uno. Che strano tipo, spirito libero ma devoto e dolce compagno. Ha scritto Garcia Lorca:
“Ho chiuso la finestra
perché non voglio sentire il pianto,
ma al di là dei muri
non si sente che il pianto.”
Chi ha un galghetto sa che la finestra e i muri non possono nascondere il pianto delle migliaia di creature maltrattate e uccise ogni anno da uomini prigionieri di una cultura primitiva. Una cultura di morte e di crudeltà senza scopo, che alimenta la rabbia di chi ha a cuore la vita. Ogni arrivo è un momento di festa, ma mi ricorda che la tragedia è sempre là, e continua mentre noi piangiamo di gioia.
Il mio galghetto è salito sul furgone che lo ha portato alla sua nuova vita, ma poteva non essere così, e certo non ha vissuto una vita felice. Lo vedo dalla sua richiesta di avere uno spazio nella mia vita, come se avesse paura che tutto possa finire da un momento all’altro. Lo vedo dalla sua fragilità, dai segni che ha sul corpo oltre che nell’anima. Io devo prendermi cura di lui, è un impegno verso di lui e verso tutti i suoi compagni che non hanno avuto la sua fortuna.
Massimo Greco
©Petlevrieri